venerdì 27 luglio 2012

Unire nella lotta le due città


I fatti dell'Ilva di Taranto rappresentano la prova del fallimento dell'associazionismo ambientalista a Taranto, e non bisogna avere remore nel dirlo. Adesso gli operai stanno bloccando l’intera città, mobilitati in massa, per paura di una chiusura che faccia perdere il loro posto di lavoro, e non contro l'inquinamento alla salute.

Il potere economico è perfettamente riuscito nel suo intento di contrapporre lavoro e ambiente: da un lato 15.000 lavoratori con le loro famiglie e le loro esigenze economiche, del tutto legittime, anche se strumentalizzati dall’Ilva e dal potere politico-sindacale colluso con l’Ilva, dall’altro i gruppi ambientalisti disorientati, spaccati in due settori, l’uno di moderati più o meno filopartitici e compatibilisti, l’ altro di fautori della chiusura dello stabilimento – a cui vanno aggiunti certi filoapertura che hanno “cambiato bandiera” all’ultimo momento.

La soluzione migliore effettivamente sarebbe quella di chiudere lo stabilimento, che avvelena e avvelenerà un intero territorio e tutti quelli che ci vivono, lavoratori inclusi (altro che bonifiche, bonificucce, monitoraggi veri o fasulli: finchè quella fabbrica funzionerà diossina, benzoapirene e particolato continueranno a circolare nell’atmosfera e a provocare tumori, che siano al di sotto o al di sopra di qualsiasi soglia).
Ma allo stesso tempo bisogna reclamare, pretendere la riconversione dello stabilimento per garantire tutti i posti di lavoro.

La mobilitazione di queste ore dovrebbe far capire molte cose a chi invece auspicherebbe solo la chiusura e basta, anzi più in generale a chi in fin dei conti si è disinteressato dell’aspetto sociale ed economico della questione, cioè del fatto che gli operai devono continuare a portare il pane a casa. Entrambi i settori anti-inquinamento hanno messo sempre al primissimo posto l’aspetto ambientale, o perlomeno è così che il messaggio ambientalista è arrivato all’”opinione pubblica”, e dunque anche a chi lavora nella fabbrica. Allora non si capisce perché i lavoratori avrebbero dovuto mobilitarsi con entusiasmo insieme ai gruppi ambientalisti per una banale petizione di chiudere la fabbrica dopo la quale la questione lavoro sarebbe stata rinviata a data da destinarsi.

Si sono susseguite in questi anni manifestazioni, passerelle colorate, convegni, forum, dibattiti, ma nessuno di questi eventi ha mai minimamente scalfito le coscienze dei lavoratori, tra l’altro controllati e manipolati da sindacati compatibilisti. E questo non per colpa dei lavoratori, la cui esigenza di lavorare e di non perdere l’unica fonte di introiti è sacrosanta, ma evidentemente per colpa di chi doveva sensibilizzarli, però non ha mai tentato nemmeno una volta di coinvolgerli direttamente, con modestia, con pazienza e diciamolo anche con scaltrezza.
Ossia, i ristretti nuclei di “attivisti” che organizzavano tutti quegli eventi, molti di loro brava gente per carità, con vocazione sincera alla difesa della salute collettiva eccetera, ma rimasti perennemente separati dai tarantini impiegati nella fabbrica. Si è sempre preteso, implicitamente, che fossero i lavoratori a venir dietro a striscioni colorati e dibattiti ecologisti. E qualcun altro addirittura considerava (e considera) i lavoratori nemici dichiarati da mettere sullo stesso piano dell’azienda, senza soffermarsi su un fatto grande come una casa e cioè, lo ripetiamo, che c’è gente che deve campare, ricattata, costretta a un’oggettiva alleanza con l’azienda (certi operai intervistati chiedono la scarcerazione dei dirigenti indagati!), ma che non ha gli stessi interessi di quest’ultima; l’azienda difende i suoi privati profitti, scaricando i costi del risanamento del danno all’ambiente e alla salute sulla collettività, i contribuenti, e quindi anche sui salari degli operai.

C’è di più. Al di là della vicenda specifica e del luogo dove si svolge, la protesta dei lavoratori Ilva che bloccano la città è una grossa lezione per chi ripete come un disco rotto elucubrazioni dottrinarie e astratte petizioni di principio scollate dalla realtà, per chi si culla evocando nostalgicamente passati storici che non torneranno più, e soprattutto per tutti coloro che pensano di mettersi letteralmente a prendere in giro il popolo di questo paese e a giocare con i suoi problemi, chiamando questo “far politica”. Il riferimento è a chi gli elargisce definizioni, chi gli lancia maledizioni “perché non si ribella” (senza mai averci mai avuto un contatto per sensibilizzarlo quando ha torto o appoggiarlo quando ha ragione) o all’opposto chi si galvanizza inutilmente riponendo su di esso speranze esagerate e poi inevitabilmente si delude, e poi stufato butta via il giocattolo perchè non funziona come voleva lui.
Questo fa il piccolo e isolato mondo degli attivisti sociali e politici in Italia, a prescindere dal tipo di battaglie che si fanno e dalle distinzioni fra rossi, rosati, verdi, neri, blu, ed è veramente arrivato il momento di darci un taglio.
Il popolo non si mobilita mai per i concetti astratti, anche giustissimi e a suo vantaggio per il futuro, ma che non sono da subito alla sua portata. Il popolo si mobilita per difendere il lavoro e non impoverirsi, se può eccome se lo fa, ed allora si deve richiamare la sua attenzione partendo da questi problemi spicci – quelli che lo fanno muovere - se si vuole informarlo, renderlo consapevole e trasmettergli principi, concetti, teorie, proposte forti.

Allora, è il momento di far scoppiare tutte le contraddizioni a Taranto, dall’interno della protesta, che va appoggiata ma deve cambiare di segno: lavoratori, ammalati cronici, ambientalisti, insomma quanti più tarantini possibili vanno spinti a protestare tutti uniti, non per chiedere che resti tutto come prima, come vogliono governo, regione, sindacati, proprietà e gestione dell’azienda, ma lottando per ottenere sia la bonifica che la riconversione della fabbrica salvaguardando tutti i posti di lavoro.
Che si passi a un tipo di produzione non inquinante, e si finanzi sia l’equivalente del salario agli operai, per il tempo in cui lo stabilimento è fermo e ristrutturato, sia il loro aggiornamento professionale, o meglio lo finanzi a sue spese il gruppo Riva e anche il ceto politico sindacale strapagato che la sorregge; e la fabbrica deve tornare di proprietà pubblica e magari gestita da chi ci lavora, senza indennizzo all’impresa, perché qui l’unico indennizzo, anzi risarcimento da versare, è quello alla cittadinanza tarantina, per l’enorme danno ambientale, alla salute e al circuito economico che le è stato causato, costringendola a scegliere di che morte morire.

Taranto è stata spaccata in due metà “nemiche”, che i media e il sistema stanno aizzando l'una contro l'altra: ora devono essere ricongiunte e lottare insieme per tenersi stretti sia il lavoro che la salute.

Andrea Russo
Per il Bene Comune

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