I fatti dell'Ilva di Taranto rappresentano la prova del fallimento dell'associazionismo ambientalista a Taranto, e non bisogna avere remore nel dirlo. Adesso gli operai stanno bloccando l’intera città, mobilitati
in massa, per paura di una chiusura che faccia perdere il loro posto di lavoro, e non contro l'inquinamento alla salute.
Il potere economico è perfettamente riuscito nel suo intento di
contrapporre lavoro e ambiente: da un lato 15.000 lavoratori con le loro
famiglie e le loro esigenze economiche, del tutto legittime, anche se strumentalizzati dall’Ilva e dal potere politico-sindacale colluso con l’Ilva, dall’altro
i gruppi ambientalisti disorientati, spaccati in due settori, l’uno di moderati
più o meno filopartitici e compatibilisti, l’ altro di fautori della chiusura
dello stabilimento – a cui vanno aggiunti certi filoapertura che hanno
“cambiato bandiera” all’ultimo momento.
La soluzione migliore effettivamente sarebbe quella di
chiudere lo stabilimento, che avvelena e avvelenerà un intero
territorio e tutti quelli che ci vivono, lavoratori inclusi (altro che
bonifiche, bonificucce, monitoraggi veri o fasulli: finchè quella fabbrica
funzionerà diossina, benzoapirene e particolato continueranno a circolare
nell’atmosfera e a provocare tumori, che siano al di sotto o al di sopra di qualsiasi
soglia).
Ma allo stesso tempo bisogna reclamare, pretendere la riconversione dello stabilimento per garantire tutti i posti di lavoro.
La mobilitazione di queste ore dovrebbe far capire molte cose a chi
invece auspicherebbe solo la chiusura e basta, anzi più in generale a chi in fin
dei conti si è disinteressato dell’aspetto sociale ed economico della
questione, cioè del fatto che gli operai devono continuare a portare il pane a
casa. Entrambi i settori anti-inquinamento hanno messo sempre al primissimo posto
l’aspetto ambientale, o perlomeno è così che il messaggio ambientalista è arrivato
all’”opinione pubblica”, e dunque anche a chi lavora nella fabbrica. Allora non si capisce perché i lavoratori avrebbero dovuto mobilitarsi con entusiasmo
insieme ai gruppi ambientalisti per una banale petizione di chiudere la fabbrica dopo la quale la questione lavoro sarebbe stata rinviata a data da destinarsi.
Si sono susseguite in questi anni manifestazioni, passerelle
colorate, convegni, forum, dibattiti, ma nessuno di questi eventi ha mai
minimamente scalfito le coscienze dei lavoratori, tra l’altro controllati e
manipolati da sindacati compatibilisti. E questo non per colpa dei
lavoratori, la cui esigenza di lavorare e di non perdere l’unica fonte di
introiti è sacrosanta, ma evidentemente per colpa di chi doveva sensibilizzarli, però non ha mai
tentato nemmeno una volta di coinvolgerli direttamente, con modestia, con pazienza e diciamolo
anche con scaltrezza.
Ossia, i ristretti nuclei di “attivisti” che organizzavano tutti quegli eventi, molti di loro brava gente per carità, con vocazione sincera alla difesa
della salute collettiva eccetera, ma rimasti perennemente separati dai tarantini impiegati
nella fabbrica. Si è sempre preteso, implicitamente, che fossero i
lavoratori a venir dietro a striscioni colorati e dibattiti ecologisti. E qualcun altro addirittura considerava (e considera) i lavoratori nemici
dichiarati da mettere sullo stesso piano dell’azienda, senza soffermarsi su un
fatto grande come una casa e cioè, lo ripetiamo, che c’è gente che deve
campare, ricattata, costretta a un’oggettiva alleanza con l’azienda (certi operai intervistati chiedono la scarcerazione dei dirigenti indagati!), ma che non ha gli
stessi interessi di quest’ultima; l’azienda difende i suoi privati profitti, scaricando i costi del risanamento del danno all’ambiente e alla salute sulla
collettività, i contribuenti, e quindi anche sui salari degli operai.
C’è di più. Al di là della vicenda specifica e del luogo dove si svolge, la protesta dei lavoratori Ilva che bloccano la città è una grossa lezione per chi ripete come un disco rotto elucubrazioni dottrinarie e astratte petizioni di principio scollate dalla
realtà, per chi si culla evocando nostalgicamente passati storici che non
torneranno più, e soprattutto per tutti coloro che pensano di mettersi letteralmente a
prendere in giro il popolo di questo paese e a giocare con i suoi problemi, chiamando questo “far
politica”. Il riferimento è a chi gli elargisce definizioni, chi gli lancia maledizioni “perché
non si ribella” (senza mai averci mai avuto un contatto per sensibilizzarlo
quando ha torto o appoggiarlo quando ha ragione) o all’opposto chi si
galvanizza inutilmente riponendo su di esso speranze esagerate e poi inevitabilmente si
delude, e poi stufato butta via il giocattolo perchè non funziona come voleva lui.
Questo fa il piccolo e isolato mondo degli attivisti sociali e
politici in Italia, a prescindere dal tipo di battaglie che si fanno e dalle
distinzioni fra rossi, rosati, verdi, neri, blu, ed è veramente arrivato il momento di
darci un taglio.
Il popolo non si mobilita mai per i concetti astratti, anche giustissimi e a suo vantaggio per il futuro, ma che non sono da subito alla sua portata. Il popolo si mobilita
per difendere il lavoro e non impoverirsi, se può eccome se lo fa, ed allora si
deve richiamare la sua attenzione partendo da questi problemi spicci – quelli che lo
fanno muovere - se si vuole informarlo, renderlo consapevole e trasmettergli
principi, concetti, teorie, proposte forti.
Allora, è il momento di far scoppiare tutte le contraddizioni a
Taranto, dall’interno della protesta, che va appoggiata ma deve cambiare di segno: lavoratori,
ammalati cronici, ambientalisti, insomma quanti più tarantini possibili vanno spinti a protestare tutti uniti, non per chiedere che resti tutto come prima, come vogliono governo, regione, sindacati, proprietà e gestione dell’azienda, ma lottando per
ottenere sia la bonifica che la riconversione della fabbrica salvaguardando
tutti i posti di lavoro.
Che si passi a un tipo di produzione non inquinante, e si finanzi sia
l’equivalente del salario agli operai, per il tempo in cui lo stabilimento è
fermo e ristrutturato, sia il loro aggiornamento professionale, o meglio lo
finanzi a sue spese il gruppo Riva e anche il ceto politico sindacale
strapagato che la sorregge; e la fabbrica deve tornare di proprietà pubblica e magari gestita da chi ci lavora, senza
indennizzo all’impresa, perché qui l’unico indennizzo, anzi risarcimento da
versare, è quello alla cittadinanza tarantina, per l’enorme danno ambientale, alla
salute e al circuito economico che le è stato causato, costringendola a
scegliere di che morte morire.
Taranto è stata spaccata in due metà “nemiche”, che i media e il sistema stanno aizzando l'una contro l'altra: ora
devono essere ricongiunte e lottare insieme per tenersi stretti sia il
lavoro che la salute.
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