mercoledì 22 settembre 2010

La fuga dei cervelli dall’Italia



Anche gli antichi romani investivano in cultura: i giovani venivano inviati ad Atene per essere formati nello studio dell’oratoria, per poi ritornare in Patria. Nell’Italia di oggi, purtroppo, il capitale umano “in fuga” difficilmente riesce a tornare per reintegrarsi nel mondo del lavoro e il sapere acquisito rimane una risorsa “lontana”. Per usare le parole di Claudia di Giorgio, autrice del libro “Cervelli export”: “l’Italia esporta gratuitamente cervelli all’estero”.

Oggi, con il processo di mercificazione dei saperi, si è imposta una nuova linea di pensiero che vede la ricerca scientifica come una “perdita di tempo e di soldi”, molto più semplice quindi far fare il “lavoro sporco” ad altri e ritagliarsi, invece, un segmento di mercato sicuro all’interno della produzione dei beni di largo consumo che prevedono non a caso una bassa intensità di innovazione. Nonostante sia iniziata la “world brains war” (la battaglia globale per i cervelli), che vede protagonisti Stati Uniti e Gran Bretagna, seguiti da numerosi altri stati (ben 36 in tutto il mondo), i quali hanno appoggiato nuove riforme politiche per attrarre “cervelli” dall’estero, l’Italia rischia di affiancarsi a quei cinque paesi (Arabia Saudita, Bhutan, Botswana, Egitto e Giordania) che si sono attivati in senso contrario per scoraggiare l’immigrazione di persone altamente qualificate.

Eppure, a due passi da noi, abbiamo un esempio illuminante di ottima gestione del “capitale umano”, ovvero la Svizzera, tra i Paesi leader mondiali nell’innovazione e nella ricerca, perché investe molto nel settore della formazione. La classifica internazionale delle università del Times Higher Education colloca ben 4 università svizzere tra le 100 migliori al mondo, oltre a vantare un elevato grado d’internazionalizzazione. Si calcola che oltre il 70 per cento degli studenti svizzeri è formato in una delle 200 migliori università al mondo (Shanghai Ranking).

Scoraggiante è, invece, la situazione dell’Italia, che per la formazione investe meno della media non solo europea, ma del mondo. Scarseggiano sia i finanziamenti pubblici che quelli privati. Nella citata classifica internazionale, l’università italiana che si posiziona meglio, quella di Bologna, è solo al 174° posto e la seconda, l’Università di Roma La Sapienza, è al 205° posto. Il grado d’internazionalizzazione, poi, delle università italiane è bassissimo. I dottorandi stranieri rappresentano una percentuale minima, poco più di un terzo della media Ue, meno di un quarto della media OCSE.

La nota contraddittoria è che le Università, ovvero Enti pubblici, finanziano la formazione e la crescita di queste giovani menti destinate a trovare occupazione in altre nazioni, in primis Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania, incrementando lo sviluppo tecnologico ed economico di queste ultime, senza che si determini un beneficio economico di ritorno.

In Italia, inoltre, i privati tendono non investire più sulla ricerca come attesta l’associazione AIR, secondo cui il numero di ricercatori pubblici (ca.90mila) in rapporto a quelli privati (ca.60mila) in Italia è 3:2, contro una media UE 1:1. Ciò significa una ennesima contrazione dei posti di lavoro nell’ambito dell’industria, mentre la ricerca migliorando il sistema produttivo permetterebbe l’assorbimento di nuove risorse umane.
I tagli previsti dalla Finanziaria del 2008, estesa anche al 2009/2010, ovviamente non fanno altro che peggiorare il quadro complessivo della situazione e non si tratta di pura casualità se una forte maggioranza dei progetti vincitori italiani provengono da centri di ricerca o università del calibro della Bocconi di Milano o della Normale di Pisa, invece assai scarsi sono quelli provenienti da semplici dipartimenti universitari.

I giovani ricercatori non sfuggono, però, solo alla mancanza dei fondi, ma anche ai sistemi alquanto ambigui, molto spesso soggetti a meccanismi nepotistici e clientelari, che regolano il reclutamento e la carriera degli stessi. Dunque stiamo parlando di uno Stato malato che non fa altro, con le sue riforme, che danneggiare una università altrettanto in decadimento, senza comprendere che, pure in un momento di forte crisi, l’unico strumento per realizzare il progresso di una nazione é finanziare la ricerca e la formazione, intese come investimento per il futuro. In caso contrario tale malessere segnerà il declino irreversibile dello Stato italiano, vittima di sé stesso.

Bianca de Laurentis

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